12 agosto 2014

Oblòmov, di Ivan Goncarov

Oblòmov, di Ivan Goncarov

Anno di prima pubblicazione: 1859

Edito da: Rizzoli, Feltrinelli, Mondadori, Einaudi, Garzanti e altri.

Voto: 9,5/10

Pagg.: 690 (nell'edizione de La Repubblica)

Traduttore: Laura Micheletti

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Una mattina, in uno dei grandi edifici della via Gorochovaja, i cui abitanti avrebbero popolato un'intera cittadina distrettuale, stava disteso a letto, nel proprio appartamento, Il'jà Il'ìc Oblòmov.
Era un uomo di trentadue-trentatré anni, di statura media, di bell'aspetto, dagli occhi grigio scuri, ma dai tratti del suo volto non traspariva alcuna idea determinata, né un qualche cenno di concentrazione. Il pensiero vagava libero come l'aria sul volto, sfarfalleggiava negli occhi, indugiava sulle labbra semiaperte, si nascondeva tra le rughe della fronte, per poi sparire completamente, cosicché la luce uniforme dell'indolenza appariva sul volto. Dal volto l'indolenza si trasmetteva alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera.



Inizia così Oblòmov, opera più importante di Ivan Goncarov nonché, in assoluto, una delle più originali e interessanti della storia della letteratura, contenutisticamente parlando.
Oblòmov è infatti una delle prime opere a descrivere un antieroe del quotidiano, una vita di nulla che si autoalimenta e autocompiace.


Oblòmov è l’antesignano del tema dell’inettitudine, ampiamente sviluppato nel romanzo del Novecento.
Stare disteso per Il'jà Il'ìc non era né una necessità, come per un malato o per una persona che vuol dormire, né un fatto imprevisto, come per chi è stanco, né un piacere, come per un pigro: per lui era la condizione normale.
Non è infatti pigrizia quella di Oblòmov. È una totale apatia, un’indifferenza verso tutto e tutti.
Non è ozio ragionato, è un’inazione patologica. Egli, infatti, non dà la mano ai pochi ospiti che vengono a trovarlo perché "vengono dal freddo"; non esce di casa perché pensa: "Che cosa c'è laggiù che non abbia ancora visto?" .

Una condizione che lo contagia anche nella sua professione di impiegato pubblico: “Egli credeva... che fango, calura o semplicemente cattivo umore fossero sempre pretesti sufficienti, legittimi per non recarsi al lavoro.
Un impiego da cui si dimette (e siamo qui all’apice dell’oblomovismo) pur di non essere ripreso dal suo superiore per una mancanza occorsa durante un’attività svolta con la solita negligenza.

La condizione di Oblòmov si riflette, ovviamente, pure nel suo rapporto con l’altro sesso: “...egli non cadde mai prigioniero delle bellezze, non fu mai loro schiavo, e nemmeno corteggiatore troppo assiduo, già per il fatto che l'avvicinarsi alle donne comporta grandi fatiche. Oblòmov si limitava per lo più a un corteggiamento da lontano, a una rispettosa distanza.
Le descrizioni della prima parte risentono probabilmente di uno stile eccessivamente classicista, mentre assai brillanti sono i molti dialoghi che si susseguono.
Personaggio principale per comprendere l’animo del protagonista è il servo Zachar, uomo anch’egli indolente e svogliato, della stessa pasta del padrone, si potrebbe dire: “...nel tappeto intriso di polvere e di macchie, lesse un triste attestato della propria diligenza al servizio del padrone.
Un servo che, esattamente come il padrone, rimanda a domani quello che benissimo potrebbe essere fatto oggi, per poi rimandarlo a dopodomani e a un altro giorno ancora.
Un servo scorbutico e sgarbato, persino con gli ospiti, che non riesce a trattenere lo scontento, esternandolo sboccatamente, ogni volta che il padrone lo chiama, arrivando sempre più spesso ad augurarsi la morte pur di sfuggire a quell’invero continuo supplizio.
Ma Zachar è, ad ogni modo, un servo fedele e tutto sommato sincero, che si intasca quelle poche monetine di rame che avanzano sul tavolino, ma mai un rublo intero. Che difende il padrone davanti ai suoi amici se essi lo attaccano, ma lo sbeffeggia se non lo attaccano.
Che subisce passivamente le sue “parole lamentose”, i suoi rimproveri, come se ciò facesse parte del suo ruolo.
I dialoghi tra Oblòmov e Zachar, con le sue reazioni disilluse, regalano del resto le pagine più ironiche del romanzo.
Oblòmov d’altra parte non potrebbe far nulla senza il suo pur inetto servo personale:
"Io non mi sono infilato le calze neanche una volta, da quando sono al mondo, grazie a Dio! Dovrei scomodarmi, forse?".

L’intera prima parte del romanzo descrive la quotidianità oblòmoviana, nell’analisi di una giornata tipo del possidente russo: le visite dei pochi amici, i rifiuti ad uscire o a fare alcunché, i continui rimandi delle poche attività che potrebbero impegnarlo.
Oblòmov non ha nemmeno hobby: non legge libri (quei pochi aperti sul suo divano hanno alti strati di polvere che ovviamente Zachar non si degna di rimuovere); non visita i conoscenti, non ama la mondanità, sia mai!
Le sue giornate trascorrono, secondo la bella immagine che ne dà Citati, "tra una dormita e una dormicchiata, una dormicchiata e una dormita".
La prima parte appare, tuttavia, leggermente sconnessa, davvero efficace soltanto nei lunghi dialoghi.
Il lunghissimo capitolo del sogno di Oblòmov è pesante e disordinato, sebbene fondamentale per comprendere l'infanzia del protagonista e la vita di campagna ad Oblòmovka (la tenuta familiare che gli fornisce quella rendita che gli permette di continuare a vivere nell’indolenza, ma che avrebbe una concreta necessità di una risistemazione a cui il proprietario continua a pensare, pur senza concretamente iniziare a predisporre un piano d'azione).
È nella vita da fanciullo in campagna che si genera il germe dell’oblomovismo.
Il capitolo del sogno ha dunque un suo perché, sebbene non appaia pienamente riuscito, se non da un punto di vista contenutistico, sicuramente dal punto di vista della fluidità narrativa. Troppo lungo e scollegato da ciò che precedeva.
Del resto, la prima parte fu scritta diversi anni prima rispetto al resto del romanzo (1849 vs. 1857-58) e lo stesso Autore la giudicava inferiore, come quando consigliò a Tolstoj (e non solo a lui) di non leggerla perché ritenuta "scadente".


La seconda parte è invece, con tutta probabilità, la migliore (insieme al tristissimo finale).
Se la prima si limitava a descrivere le (in)attività quotidiane di Oblòmov nel suo appartamento di San Pietroburgo (da cui verrà, con suo sommo dispiacere e fastidio, allontanato), la seconda introduce il personaggio fondamentale dell'amico tedesco Stolz, del quale dapprima troviamo una veloce biografia che aiuta a capire l’estrema diversità di carattere esistente tra i due, poi il dialogo, bellissimo, che per primo riesce a insinuare una crepa nel lassismo del possidente russo.
- Che c'è, a te non piacerebbe vivere così? - domandò Oblòmov - Eh? Non è vita questa?
- E' tutto il tempo così? - domandò Stolz.
- Fino alla canizie, fino alla tomba. Questa è vita!
- No, questa non è vita!
- Come, non è vita? Che cosa le manca? Pensa, non vedresti nemmeno un volto smunto, sofferente, non avresti alcuna preoccupazione, alcuna questione relativa alla corte suprema, alla borsa, alle azioni, ai rapporti, al ricevimento presso un ministro, ai gradi, agli aumenti delle indennità per il vitto. Invece, sempre conversazioni come detta l'anima! Non avresti mai bisogno di traslocare da un appartamento e, già solo per questo, ne varrebbe la pena! E questa non sarebbe vita?
- Non è vita! - ripeté Stolz caparbio.
- E cosa sarebbe, secondo te?
- E'... (Stolz si mise a pensare in cerca di una definizione per quel tipo di vita). E'... oblomovismo - disse finalmente.
- O - blo - movismo! - scandì lento Il'jà Il'ìc, stupefatto per questa strana parola e scomponendola in sillabe. - Ob - lo - mov - ismo.

Stolz conia per primo il termine “oblomovismo”, divenuto di uso comune per descrivere un atteggiamento simile a quello del protagonista, insieme al concetto, invero meno utilizzato, di “sindrome di Oblòmov”.

Il decisionismo esuberante di Stolz non potrà che contagiare Oblòmov, il quale sarà costretto a seguirlo nelle sue scorribande mondane fino (addirittura) ad un progetto di viaggio all'estero, che resterà tuttavia inattuato.
Durante alcune delle visite a cui Stolz lo ha praticamente costretto, Oblòmov conosce la giovane Ol'ga. L'amore sboccia repentino e innocente come quello degli adolescenti, fomentato dalle doti canore della giovane che mandano in estasi Oblòmov.
- Guardatevi allo specchio - proseguì, indicandogli con un sorriso il suo stesso volto allo specchio, - gli occhi luccicano, Dio mio, vi sono lacrime in essi! Come sentite profondamente la musica!...
- No, io sento... non la musica... ma... l'amore! - disse piano Oblòmov.
Ella gli lasciò istantaneamente la mano e mutò in volto. Il suo sguardo incontrò lo sguardo di lui, concentrato su di lei: quello sguardo era immobile, quasi folle; in esso non era Oblòmov a guardare, ma la passione.
Ol'ga comprese che quella parola gli era sfuggita, che egli non ne era padrone, e che essa era la verità.
Egli si riebbe, prese il cappello e, senza guardarsi attorno, uscì di corsa dalla stanza. Ella non lo accompagnava ormai più con lo sguardo curioso; stette in piedi presso il pianoforte, a lungo, immobile come una statua, guardando ostinatamente verso il basso; solamente il petto si alzava e abbassava con insistenza...

Questo nuovo sentimento sarà il secondo e più grande motore del purtroppo effimero cambiamento di Oblòmov.
Le pagine del dialogo con Stolz e degli incontri con Ol'ga sono di una bellezza e insieme di una semplicità e di una fluidità estreme. Se lo stile dei dialoghi non si discosta molto dalla prima parte, recando un vero e proprio marchio di fabbrica alla Goncarov, tutto il resto si colma di una squisita armonia (basti pensare alla notevole differenza tra il sogno di Oblòmov della prima parte e il resoconto immaginario indotto da Stolz nell'amico, al principio della seconda).

Come detto, il cambiamento di Oblòmov è effimero, non può durare.
Un animo indolente e apatico come il suo, non può che ripiombare nell’abisso. La vita mondana non fa per lui e presto non riuscirà più a nasconderlo: “... andò a teatro, sbadigliando come se volesse inghiottire l'intero palcoscenico, grattandosi la nuca e cambiando posizione alle gambe accavallate.
Sebbene ami profondamente Ol’ga, Oblòmov capisce che il loro rapporto non può durare, che quello della giovane ragazza non è amore ma un’idea di amore, che Oblòmov non vuole distruggere con la propria sicura futura inettitudine.
Oblòmov, che fino a qualche tempo prima non prendeva in mano una penna se non vi era costretto, scrive ad Ol’ga una lettera profonda e sentita cercando di interrompere la relazione:
Nella mia profonda angoscia mi conforta un poco il fatto che questo breve episodio della nostra vita mi lascerà per sempre un ricordo talmente puro, fragrante, che sarà sufficiente per non precipitare di nuovo nel sonno spirituale di un tempo; a voi invece, senza arrecare alcun danno, servirà da insegnamento per un futuro, normale amore. Addio, angelo, volate via al più presto, come un uccellino intimorito vola via dal ramo su cui si era posato per errore; con la medesima lievità, freschezza e allegria, volate via dal ramo su cui vi eravate posata senza volerlo!

I due si allontanano definitivamente, non senza sofferenze.
Oblòmov ripiomba nell’inedia. Si trasferisce in borgata, facendosi truffare a più riprese da un vecchio amico senza scrupoli e dal fratello della nuova padrona di casa.
Trova in quest’ultima, tuttavia, il modello, pur sconfortante e angosciante, di quella quotidianità tranquilla e senza preoccupazioni a cui tanto aspirava.
... nella figura di Agàf'ja Matvéevna, nei suoi gomiti in perenne movimento, nei suoi occhi che si fermavano attenti su ogni cosa, nel suo perenne andare dall'armadio alla cucina, dalla cucina alla dispensa, da lì verso la cantina, nella sua assoluta conoscenza di ciò che favoriva la comodità della vita e la conduzione domestica, era incarnato l'ideale di quella tranquillità del vivere, immensa come l'oceano, imperturbabile, la cui immagine durante l'infanzia, sotto il tetto paterno, si era impressa in modo indelebile nella sua anima.
In un ultimo sussulto di orgoglio (e con l’aiuto dell’amico Stolz) riesce ad allontanare il fratello di lei e ad evitare che il suo ricco patrimonio e la sua rendita venissero definitivamente dilapidati a suo favore, nella sua sconcertante indifferenza.

Oblòmov ricorda ancora Ol’ga (che nel frattempo ha sposato Stolz) con affetto distante ma sincero. È felice della relazione tra il suo migliore amico e quella ragazza che, lei sola, gli aveva fatto conoscere la vita vera e la passione.
Anche ad Ol’ga, pur felice della sua scelta, pare però mancare qualcosa: pur con la sua inquietante apatia, Oblòmov e il periodo trascorso con lui, rappresentavano l’illusione del sogno, l’amore idealizzato (forse il vero amore, pur travagliato?).
Sicuramente c’è un abisso rispetto al brillante pragmatismo di Stolz, che, da parte sua, comprende il suo disagio: “Le ricerche di una mente viva, eccitata, talvolta si slanciano oltre i limiti della vita comune, non trovando certamente delle risposte, e allora compare la tristezza… una temporanea insoddisfazione della vita…è la tristezza dell’anima, che interroga la vita sul suo mistero”.

Per Oblòmov - che nel frattempo sposerà la tranquilla, sempliciotta Agàf’ja Matvéevna, da cui avrà un figlio (che prenderà lo stesso nome dell’amico Stolz) - non può che avvicinarsi ineluttabilmente la fine, accompagnata da un degrado morale e fisico inevitabile:
Era nato ed era stato educato non come un gladiatore per l’arena, bensì come un pacifico spettatore della lotta; il suo spirito timido e indolente non avrebbe potuto sopportare né i turbamenti della felicità, né i colpi della vita; di conseguenza egli ne esprimeva una sola regione, e non vi era alcunché da raggiungere, da mutare, né da rimpiangere.
Con il passare degli anni le emozioni e la contrizione comparivano sempre più di rado, ed egli, piano e con gradualità, si adagiava nella bara semplice e ampia dell’esistenza rimastagli, una bara che si era costruito con le proprie mani, come gli stàrec, i vegliardi eremiti che, voltando le spalle alla vita, si scavano da soli la fossa.

Un triste finale, come detto, vede la morte di Oblòmov e il di lui figlio affidato a Stolz e Ol’ga, affinché ne curino un’educazione auspicabilmente antitetica a quella del padre.
Nel giorno di Sant’Elia, Stolz (che passeggia con un uomo che rappresenta l’alter ego di Goncarov, pronto ad ascoltare la storia di Oblòmov per poi scriverne) incontrerà il servo Zachar, divenuto cieco e mendicante, ma che ancora ricorda con affetto e fedeltà quell’unico, inimitabile padrone.

Un libro bellissimo, a cui non mancano per il vero dei difetti, con alcune parti eccessivamente prolisse e un tantino sconnesse.
Difetti che, tuttavia, si dimenticano facilmente pensando all’armonia del complesso e ad un finale che fa venire letteralmente i brividi per la sua triste compiutezza.
Emozioni che soltanto i grandissimi libri possono regalare.

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