2 gennaio 2015

La fisica del diavolo, di Jim Al-Khalili

La fisica del diavolo (Paradox. The Nine Greatest Enigmas in Science), di Jim Al-Khalili

Anno di prima pubblicazione: 2012

Edito da: Bollati Boringhieri

Voto: 8,5/10

Pagg.: 242

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Jim Al-Khalili è un fisico teorico di origine irachena, che insegna all’Università del Surrey, in Inghilterra.
Noto per la sua eccezionale capacità divulgativa (conduce anche una trasmissione scientifica radiofonica per la BBC), ha scritto questo bellissimo libro, semplice e ben scritto, adatto anche a chi di fisica non se ne intende più di tanto.

Il libro è intelligentemente strutturato per paradossi, così da spiegare le più importanti scoperte scientifiche del secolo scorso (relatività e meccanica quantistica), mediante un approccio accattivante e finalizzato.

Innanzitutto, come spiega l’autore, un paradosso “è un’affermazione che porta a un ragionamento circolare e contraddittorio oppure a una situazione logicamente impossibile”.
Prima di tuffarsi nella fisica, Al-Khalili fa alcuni esempi di paradossi, alcuni scherzosi, altri dei veri e propri rompicapo logici.
Attingendo dal vasto repertorio dello humour britannico, ci spiega così come possa avvenire che ogni volta che uno scozzese si sposta dalla Scozia in Inghilterra, il quoziente d’intelligenza medio di entrambi i paesi aumenti (semplice: siccome gli scozzesi sono più intelligenti degli inglesi, il quoziente d’intelligenza medio dell’Inghilterra aumenta; ma aumenta anche quello della Scozia, perché, del resto, lasciare la Scozia e andare a vivere in Inghilterra è una cosa talmente sciocca che solo uno degli scozzesi meno intelligenti può farlo!!).

L’autore passa dunque ai paradossi-rompicapo, di tipo logico-probabilistico, che vengono distinti in paradossi veridici e paradossi fallaci: “un paradosso veridico giunge a una conclusione che è controintuitiva perché va contro il buon senso, ma è vera, e si può dimostrare” mentre un paradosso fallace “parte in maniera perfettamente ragionevole, e poi in qualche modo finisce con una conclusione assurda. Però, in questo caso la conclusione assurda è falsa, a causa di qualche passaggio sbagliato o fuorviante”.
Tra i più affascinanti esempi di questo secondo tipo di paradossi, c’è il “paradosso della scatola di Bertrand”: ci sono tre scatole, ognuna contenente due monete, e ogni scatola è divisa in due da una partizione, con una moneta in ogni metà. Ogni lato si può aprire separatamente per vedere la moneta che c’è dentro (cioè senza vedere la moneta nell’altra metà). In una delle scatole ci sono due monete d’oro, in un’altra due monete d’argento, e nella terza una d’oro e una d’argento. La probabilità di scegliere la terza scatola, con una moneta d’oro e una d’argento, è ovviamente di una su tre. Eppure, se io aprissi uno dei due compartimenti di una scatola (trovando dunque una moneta d’oro o una d’argento) automaticamente escluderei una possibilità, quella di trovare la scatola con la doppia moneta di metallo diverso da quello che ho visto.
Sembra così che, dopo aver fatto un’osservazione, le probabilità si riducano a una su due. Ma è davvero così?

Abbiamo poi il famoso “enigma del dollaro mancante”, classico esempio di ragionamento condotto in maniera tale da trarre in inganno l’ascoltatore: tre viaggiatori si fermano in un albergo. L’impiegato chiede 30 dollari per una camera con tre letti. I viaggiatori pagano ognuno dieci dollari. L’impiegato si accorge di essersi sbagliato: il prezzo della camera era 25 dollari. Prende cinque dollari dalla cassa ma accorgendosi di non poterli dividere in parti uguali per i tre clienti, decide di dare un dollaro a ognuno, e tenersi gli altri due per sé. E qui sorge il problema: ognuno dei tre amici avrà pagato nove dollari per la stanza, che fa 27 dollari in tutto, e l’impiegato si è tenuto due dollari, che fa 29. Dov’è finito l’ultimo dollaro dei 30 iniziali?

Tra i paradossi veridici abbiamo invece il cosiddetto “paradosso di Monty Hall”: un ospite di un gioco a quiz deve scegliere fra tre porte, A, B e C. Dietro a una porta c’è una macchina, dietro alle altre due c’è una capra. Il concorrente sceglie la porta A, e il conduttore, che sa dove sta la macchina, apre un’altra porta, la B, mostrando una capra. Il paradosso (apparente) sta nel fatto che per il concorrente, a questo punto, il cambio è sicuramente vantaggioso, da un punto di vista della teoria della probabilità. Una conclusione controintuitiva che in molti si sono cocciutamente rifiutati di accettare, eppure è così, come spiega Al-Khalili con varie diverse dimostrazioni.

Ma fin qui si era soltanto scherzato (e ci mancherebbe).
Terminati i paradossi logici, l’autore si butta sulla fisica, partendo da una rivisitazione in chiave quantistica dei celebri paradossi di Zenone, in particolare quelli sul movimento come illusione: Achille e la tartaruga, Lo stadio, La freccia.
Il paradosso di Achille e la tartaruga è sicuramente il più famoso (già confutato dal filosofo cinico Diogene, che si alzò e cominciò a camminare, senza dir nulla, per dimostrare che Zenone aveva torto, ma che venne risolto scientificamente solo con l’invenzione di nuovi strumenti matematici).
Tuttavia, è il paradosso della freccia quello che ha attirato maggiormente l’attenzione dei fisici: “una freccia in volo in ogni dato istante occupa una certa posizione fissa, così come la vedremmo in una fotografia. Ma se la vediamo solo in quell’istante, sarà indistinguibile da una freccia immobile nella stessa posizione. Quindi, come possiamo dire che una freccia si sta effettivamente muovendo?”.
Anche tale paradosso è stato matematicamente risolto: “l’idea di Zenone che un intervallo di tempo finito si possa pensare come la giustapposizione di istanti di durata uguale a zero è sbagliata” e invece se i momenti “non hanno durata esattamente zero, allora la freccia sarà in una posizione leggermente diversa all’inizio e alla fine del momento, e quindi non si può dire che sia a riposo”.
Eppure i fisici di oggi hanno riabilitato il filosofo greco e il paradosso della freccia, dando il suo nome ad una proprietà del mondo dell’infinitamente piccolo, il cosiddetto “effetto quantistico di Zenone”.

Dall’infinitamente piccolo si passa all’infinitamente grande, con il paradosso di Olbers, che cerca di rispondere ad una delle domande (solo apparentemente) più banali che l’uomo possa porsi: perché di notte il cielo è buio?
Abbiamo buone ragioni di credere che anche se l’universo non fosse infinito (e potrebbe invece esserlo), è così grande che dal punto di vista pratico possiamo assumere che si estende all’infinito. Quindi, in qualunque direzione si guardi, si dovrebbe vedere una stella e il cielo dovrebbe essere più luminoso la notte di quanto il Sole lo renda di giorno”.
Attraverso un interessante excursus astronomico, l’autore ci porta a riflettere sull’universo e i suoi misteri.
Innanzitutto una domanda è fondamentale, per argomentare su questo paradosso: l’universo è fermo, in espansione o in contrazione?
Se la prima opzione è chiaramente da escludere (in quanto una delle due forze che impongono l’allontanamento o il riavvicinamento delle galassie prima o poi sarà costretta a prevalere), delle altre due, che si sono a lungo contese il campo, sembra oggi prevalere l’ipotesi secondo la quale l’universo è destinato ad una accelerazione continua (senza che dunque vi sia il pericolo, nemmeno in un futuro lontanissimo, di un collasso gravitazionale).
È stato scoperto, infatti, che una forza apparentemente irresistibile sta spingendo le galassie ad allontanarsi sempre più velocemente.
Una sorta di anti-gravità, da alcuni chiamata “energia oscura”, che conferma una delle teorie di Einstein che più era stata messa in discussione (e già etichettata come presumibilmente errata): quella dell’esistenza di una forza di repulsione cosmica, che però, anziché tenere l’universo in equilibrio, sembra lo stia sempre più rarefacendo.
L’accelerazione dell’espansione è stata scoperta nel 1998 e ha un corollario inesorabile: l’universo “morirà di «morte termica», mentre tutto si allontana da tutto per sempre”.
Ma ciò non avviene in tutte le parti dell’universo: ad esempio, la Via Lattea e Andromeda (una delle galassie più vicine alla nostra) sono in rotta di collisione, anche se ci vorranno diversi miliardi di anni prima che ciò avvenga.
Il fatto che l’universo sia in espansione, anziché in contrazione, è già di per sé “sufficiente a spiegare il paradosso di Olbers”.
Ma l’autore ha una spiegazione ancora più esatta e soddisfacente (e non meno sorprendente): “il motivo per cui il cielo di notte è buio non risiede nella finitezza dell’universo (…). Non è che le stelle lontane siano troppo fioche: più si guarda lontano, più stelle e galassie si dovrebbero vedere, e la loro luce cumulativa dovrebbe riempire di luce gli spazi tra una stella e l’altra. E non è nemmeno che la luce proveniente da molto lontano è bloccata da polvere o gas che la assorbono: nel tempo, questa materia si sarebbe riscaldata, assorbendo energia dalla luce, e ora risplenderebbe di luce propria. No, la ragione dell’oscurità è più semplice e più profonda di tutte queste spiegazioni errate: il cielo è buio perché l’universo ha avuto un inizio”.
È il big bang dunque la causa dell’inizio dell’universo conosciuto e anche del fatto che il cielo di notte sia buio (che è una conseguenza di tale “inizio”).
Il big bang istituisce un limite temporale oltre il quale la luce non può raggiungere alcun osservatore: “possiamo vedere solo quel tanto che l’età dell’universo ci permette”.
Una soluzione interessantissima, che è sempre stata sotto gli occhi di tutti: “Per convincersi che il Big Bang è effettivamente avvenuto, basta uscire la notte e ammirare il cielo buio”.
Ma una soluzione a cui si è arrivati soltanto in tempi recenti. E la cosa più curiosa è che il primo ad averne l’intuizione non è stato uno scienziato, bensì uno scrittore e poeta, il grande Edgar Allan Poe, nel suo saggio “Eureka”:
Se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo avrebbe una luminosità uniforme, come quella della nostra Galassia, perché non potrebbe esserci assolutamente nessun punto, in tutto lo sfondo, privo di una stella. Il solo modo, perciò, in cui potremmo comprendere i vuoti osservati dai nostri telescopi in tutte le direzioni, sarebbe di supporre che la distanza dello sfondo è così grande che nessun raggio luminoso possa aver ancora avuto il tempo di raggiungerci”.

Dalla fisica astronomica si passa alla fisica classica con l’esposizione del paradosso del diavoletto di Maxwell, con il quale si tentava di mettere provocatoriamente in discussione uno dei capisaldi della fisica: il secondo principio della termodinamica. Un principio “di natura statistica”, come spiega l’autore: “è solo incredibilmente più probabile che stati a bassa entropia si evolvano in stati ad alta entropia piuttosto che il contrario”.
Detto in parole povere: dall’ordine si va verso il disordine, a meno che vi sia un apporto di energia (lavoro) che tende a ristabilire l’ordine.
Il secondo principio della termodinamica è importantissimo perché “definisce la direzione del tempo”.

Ed eccoci ad Einstein e alla teoria della relatività.
Il primo dei paradossi legati al genio tedesco è quello cosiddetto “dell’asta nel fienile”.
Un uomo corre con un asta in mano a velocità quasi pari a quella della luce e passa da un fienile la cui lunghezza è pari a quella dell’asta. Il fienile ha una porta anteriore e una posteriore da cui l’uomo si appresta ad entrare ed uscire. Un altro uomo, fermo all’interno del fienile, vede passare l’uomo con l’asta. Per effetto della teoria della relatività, a velocità prossime a quelle della luce, corpi e distanze si contraggono (è un effetto del fatto, previsto dalle teorie di Einstein, che la velocità della luce è uguale per chiunque, a prescindere dall’eventuale moto dei soggetti che la osservano. L’unico modo per cui la luce può viaggiare alla stessa velocità per tutti gli osservatori, indipendentemente dalla loro velocità, è ammettere che gli osservatori misurano tempi e distanze in modo differente).
Siccome per l’uomo che sta dentro il fienile l’asta è apparentemente più corta del fienile stesso, potrebbe egli chiudere le porte, bloccando l’asta al loro interno?
E se consideriamo che per l’uomo con l’asta, che vede le altre cose venirgli incontro alla velocità della luce, è (al contrario) il fienile ad essere più corto della sua asta, cosa succederà se l’uomo dentro il fienile chiuderà le porte?

Il secondo paradosso legato alle teorie di Einstein è quello, ben più celebre, dei gemelli.
Due gemelli, uno che rimane sulla Terra e un altro che parte per un viaggio su una navicella spaziale che va a velocità prossime a quella della luce, quando torneranno non avranno più la stessa identica età. Il gemello che ha viaggiato, infatti, sarà più giovane. E anche di parecchio, se avrà viaggiato ad una velocità molto vicina a quella della luce.
La teoria della relatività dimostra infatti che il tempo, ad alte velocità, si dilata (mentre lo spazio si contrae, ma le due cose sono correlate, come si evince dal concetto einsteiniano di spazio-tempo).
Ma la cosa bella è che fin qui non c’è nessun paradosso. È tutto dimostrato matematicamente.
Per avere il paradosso occorre un passaggio in più: bisogna pensare che secondo il punto di vista di ciascun gemello, per effetto della relatività del moto, è l’altro che si sta muovendo e quindi l’altro dovrebbe essere più giovane di lui!

Questo avventurarsi nei meandri del tempo, modellandolo sulla base di fattori quali la velocità e lo spazio, porta necessariamente ad affrontare la tematica della possibilità di viaggiare nel tempo.
Il viaggio del gemello può già essere considerato un viaggio nel tempo, e in particolare nel futuro, perché quando tornerà sulla Terra per lui saranno passati, poniamo, una decina di anni, mentre sul nostro pianeta ne saranno trascorsi, ad esempio, un centinaio.
Ma si può viaggiare nel passato?
Il tema è inevitabilmente più complicato, e genera un nuovo paradosso, cosiddetto “del nonno”. Se tornassi indietro nel tempo e uccidessi un mio antenato, come farei io ad essere vivo e ad aver potuto fare ciò che ho fatto?
Come si può notare chiaramente, le implicazioni dei viaggi nel tempo “nel passato” violano capisaldi di tutta la fisica, quali il primo principio della termodinamica, secondo cui non si può generare qualcosa dal nulla, e il principio di causalità, secondo il quale la causa appare prima del suo effetto.
L’autore chiude la trattazione del capitolo introducendo un altro quesito, un paradosso nel paradosso, che ricorda quello di Fermi, ma che è applicato ai viaggi nel tempo.
Se i viaggi nel tempo (e in particolare quelli nel passato) fossero davvero possibili, perché non abbiamo ancora avuto notizia di qualcuno che è tornato indietro nel tempo, ai nostri giorni, da un futuro imprecisato?

Con il paradosso cosiddetto del diavoletto di Laplace, l’autore passa a trattare gli argomenti del determinismo e del caos.
Il nostro destino potrà anche essere definito in un universo deterministico, ma è completamente imprevedibile”.
Enuncia così il “teorema della scimmia instancabile”, secondo il quale “una scimmia che schiaccia tasti a caso su una macchina da scrivere, se ha un tempo infinito, può, per puro caso, produrre l’opera omnia di Shakespeare”.
La scienza del caos, nata da modelli matematici studiati per descrivere fenomeni meteorologici, ci dimostra come piccolissime differenze possono a volte produrre effetti enormi, il che rende complesso oltre ogni  dire la previsione di fenomeni futuri, anche partendo dalla conoscenza di tutte o quasi le variabili implicate.
È il famigerato (e abusato) “effetto farfalla”. Un’idea descritta per la prima volta dallo scrittore di fantascienza Ray Bradbury. Ancora una volta la letteratura anticipa sorprendentemente la scienza.
Ma qual è la novità di questa scienza del caos? L’autore ce la spiega in maniera molto efficace:
prima di arrivare a una comprensione del caos, si pensava che non solo l’effetto segue la causa, ma cause semplici producono effetti semplici, e cause complesse producono effetti complessi. Il concetto che una causa semplice potesse dare luogo a un effetto complesso era del tutto inaspettata ed è ciò che i matematici chiamano «non lineare»”.
Ed ecco dunque da cosa deriva l’imprevedibilità: “L’imprevedibilità sorge dall’impossibilità di riuscire a conoscere con infinita precisione le condizioni iniziali per l’evoluzione di qualsiasi sistema che non sia semplicissimo. Ci sarà sempre un minuscolo errore nei dati iniziali che si ingigantirà, portandoci a previsioni sbagliate”.

Dopo Laplace, l’autore si rituffa a capofitto nel mondo della fisica quantistica, con un altro dei più celebri esperimenti mentali che la scienza ha prodotto nel Novecento: il paradosso del gatto di Schrödinger.
Chiudiamo un gatto in una scatola con un contatore Geiger e del materiale radioattivo, il quale abbia una probabilità del 50% di decadere. Se anche solo un atomo di materiale radioattivo decade, si attiverebbe il contatore Geiger il quale, a sua volta, azionerebbe un martello che romperebbe una fialetta di acido cianidrico, uccidendo il gatto.
Esperimento tanto semplice, quanto potenzialmente crudele (solo in ipotesi, trattandosi di un esperimento mentale), che portò il grande fisico austriaco ad una conclusione potenzialmente sconvolgente:
il gatto dovrà esistere in due stati: sarà contemporaneamente vivo e morto. Questo significa che non sarà né veramente vivo né veramente morto, ma in uno stato di mezzo, confuso, non fisico, che si risolve in un modo o nell’altro quando apriamo la scatola. Questo è ciò che ci dice la meccanica quantistica, e sembra una sciocchezza”.
Del resto stiamo parlando di fisica quantistica, quella per cui il grande Niels Bohr disse: “Se non rimanete sconvolti dalle conclusioni della meccanica quantistica, vuol dire che non l’avete capita.”
Come aveva già intuito Heisenberg, il mondo atomico è una realtà sfuggente, “che si cristallizza in un’esistenza ben definita solo quando predisponiamo uno strumento per osservarlo e misurarlo”.
Quello stesso Heisenberg che, col suo “principio di indeterminazione” aveva introdotto un limite invalicabile nella capacità di osservare, che prescinde dall’efficienza tecnologica dei mezzi che vengono utilizzati: è impossibile determinare sperimentalmente, allo stesso tempo e in modo esatto, la posizione di un elettrone e la sua velocità.
Anche il paradosso del gatto di Schrodinger può essere in un certo modo spiegato, anche se stavolta la spiegazione sembra più irragionevole del paradosso stesso:
nel mondo quantistico, le cose si comportano in modo molto diverso a seconda se le stiamo osservando oppure no. Quando non guardiamo, possono trovarsi in stato di sovrapposizione e fanno due cose diverse contemporaneamente. Non appena le osserviamo, in qualche modo sono immediatamente costrette a scegliere tra le diverse opzioni e a comportarsi ragionevolmente. L’atomo radioattivo nella scatola col gatto in realtà si trova nella sovrapposizione di due stati quantistici, decaduto e non decaduto allo stesso tempo”.

Meglio passare al paradosso di Fermi, rispetto al quale tutti, bene o male, possono dire la loro.
Ebbene, il grande fisico italiano, parlando di vita extraterrestre, pose un quesito divenuto celebre:
Data la sua considerevole età e la sua immensa vastità, l’universo, con centinaia di miliardi di stelle solo nella Via Lattea, molte delle quali hanno i loro sistemi planetari (a meno che la Terra sia estremamente atipica nel presentare le condizioni per lo sviluppo della vita) dovrebbe brulicare di vita e di civiltà intelligenti, molte delle quali dovrebbero avere la tecnologia necessaria per viaggiare nello spazio e arrivare fino a noi. Quindi, dove sono tutti?
Le possibili risposte sono molte e sono coinvolti vari campi delle scienze (non solo la fisica, ma anche la chimica e la biologia, che devono fornire il responso su quanto sia effettivamente complicata la formazione della vita partendo da composti di materia organica).
Un quesito non solo scientifico, ma per certi versi filosofico, soprattutto quando si entra nell’ambito dei cosiddetti principi antropici.
L’autore propone la sua personale soluzione del paradosso: “un universo adatto a noi sarebbe anche adatto ad altre forme di vita non troppo dissimili da noi. La vastità dell’universo, con i suoi miliardi di galassie, suggerisce che, per quanto la Terra sia speciale e per quanto la nascita della vita fosse improbabile, è incredibilmente probabile che la vita esista anche da qualche altra parte; tuttavia, forse, semplicemente siamo soli in questo angolino della Via Lattea”.

L’autore conclude il suo libro parlando dei paradossi che invece non sono ancora stati risolti e che sono moltissimi. Alcuni di essi sono in via di soluzione, altri, probabilmente, non verranno mai risolti.

Un libro interessantissimo e scritto in modo davvero semplice da un autore che dimostra una non comune abilità divulgativa.
Libri così ne vengono scritti pochi, anche perché gli scienziati hanno sempre un certo timore nel banalizzare il proprio lavoro, nonostante ciò rechi un indubbio beneficio alla comprensione dei non addetti ai lavori.
Al-Khalili sembra non preoccuparsi di ciò, per fortuna, e ci regala un libro davvero godibile.
Ovviamente non mancano le parti in cui occorre spremere un po’ di più le meningi: con argomenti così complessi, del resto, almeno un po’ di sforzo ci va.
L’autore, tuttavia, fa davvero tutto per rendere le cose più semplici, arrivando, in certi punti, ad alcune esplicite richieste di fidarsi di lui: della serie, questa cosa è troppo difficile, quindi fidatevi.
Un atteggiamento ovviamente poco scientifico ma assolutamente adatto al tipo di pubblicazione.

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