17 gennaio 2015

Trainspotting, di Irvine Welsh

Trainspotting, di Irvine Welsh

Anno di prima pubblicazione: 1993

Edito da: Guanda

Voto: 7,5

Pagg.: 368

Traduttore: Giuliana Zeuli

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Trainspotting è una caotica accozzaglia di esperienze, sul filo conduttore di una manciata di elementi: gli stupefacenti, l’alcool, il sesso, l’AIDS.
Un libro che si ricorda soprattutto per lo stile fortemente sboccato, crudo e diretto, di Welsh.


A tratti inquietante: basti citare, su tutti, gli episodi della morte in culla di Dawn e quello del capezzale di Venters, già condannato dall’AIDS, ma la cui fine viene accelerata dall’amico che si vendica per il fatto di avergli trasmesso il virus.
A tratti follemente divertente: il capitolo “colazione tradizionale della domenica” è davvero esilarante, così come lo sono alcune singole scene, ad esempio quella in cui la partner occasionale di Spud lo cosparge di Vicks Vaporub, scambiandolo per vaselina.
Anche se l’episodio più spassoso in assoluto è quello, ad inizio romanzo, del bagno pubblico (presente anche nel film). Una scena tragicomica descritta in modo sensazionale (ancor di più che nel film).
Mi tiro via le mutande, e mi siedo sulla tazza di ceramica fredda e bagnata. Mi svuoto le viscere e mi sento come se mi venisse fuori tutto per il buco del culo, tutto quello che ho dentro, cazzo, budella stomaco intestino milza fegato reni cuore polmoni e cervello, per andare a finire nella tazza.

Trainspotting racconta la storia (o per meglio dire le storie) di un gruppo di giovani della periferia di Edimburgo, Scozia.
Ciascun capitolo è narrato dal punto di vista di uno dei personaggi – Rents, Sick Boy, Beggar, Spud e altri minori – ciascuno secondo il suo proprio caratteristico stile (tra cui risalta la narrazione nevrotica di Beggar, costantemente intercalata dalla parola “cazzo”).
Il tema principale è quello della tossicodipendenza (ma anche delle dipendenze in generale), trattato in modo assai crudo, ma anche, in certi casi, con sottile ironia:
In fatto di droga eravamo tutti dei liberali della scuola classica, decisamente contrari a qualsiasi forma di intervento da parte dello stato.
L’altro tema forte del romanzo è quello del sesso, raccontato quasi sempre in modo esplicito e spesso condito da una buona dose di humour:
È un po’ come gettare una salsiccia in un vicolo, ma riesco a trovare un certo ritmo e lei mi si stringe attorno.

L’eroina è ormai entrata nella vita dei protagonisti e sembra non poterne uscire più, nonostante i deboli tentativi che essi fanno per cercare di affrancarsene.
Sforzi che si spengono all’insorgere della prima crisi di astinenza.
Cominciavo a stare di schifo anch’io, cazzo. Salendo per le scale di casa di Johnny mi venne un attacco di crampi fortissimi. Ero bagnato fradicio, zuppo come una spugna, e a ogni scalino mi spruzzava dai pori un’altra cascata di sudore.
Una condizione difficile, quella del tossico e dell’hiv positivo, che Welsh cerca di descrivere (anche) al lettore “vergine”. Un’impresa chiaramente non semplice:
È facile prendersela con filosofia quando è un altro ad avere il sangue pieno di merda, e non tu.
Quell’eroina che ti sballa come null’altro, ma che, a fronte di ciò, chiede un conto salatissimo:
Succede così a tante ragazze. Pare che l’ero le fa più belle, tira fuori i loro lati migliori. Ti dà sempre qualcosa, o almeno così sembra, prima di riprendersi tutto, con gli interessi.
La droga diventa un alibi per l’intera esistenza, un modo per giustificare i propri fallimenti, un luogo in cui rifugiarsi per fuggire alla banalità e insieme alla complessità della vita:
Il mio problema è questo, ogni volta che quasi quasi mi sembra di farcela, o quando già ce l’ho fatta a ottenere una cosa che pensavo di volere, una ragazza, una casa, un lavoro, esami, soldi o roba del genere, poi mi sembra una tale perdita di tempo, una tale cazzata che non me ne fotte più un cazzo. Con la droga è diverso, però. Uno non può girarsi e andarsene. Non te lo lascia fare, quella, non ti molla.
Non importa se queste scelte porteranno verosimilmente alla morte, una morte che si affaccia drammaticamente in vari punti del romanzo.

E così a quella società che gli dirà:
Scegli noi. Scegli la vita. Scegli il mutuo da pagare, la lavatrice, la macchina; scegli di startene seduto su un divano a guardare i giochini alla televisione, a distruggerti il cervello e l’anima, a riempirti la pancia di porcherie che ti avvelenano. Scegli di marcire in un ospizio, cacandoti e pisciandoti sotto, cazzo, per la gioia di quegli stronzi egoisti e fottuti che hai messo al mondo. Scegli la vita.
Renton risponderà:
Beh, io invece scelgo di non sceglierla, la vita (…) io voglio andare dritto per la mia strada, fino in fondo.

Questa battuta, che nella trasposizione cinematografica di Danny Boyle è stata posta all’inizio (leggermente modificata), anziché al centro (per certi versi portando ad un travisamento del significato della stessa come bilancio), dà l’occasione di parlare del rapporto tra libro e film, quest’ultimo innegabilmente più celebre, almeno in Italia.
C’è da dire che Boyle e tutto il cast hanno fatto davvero un ottimo lavoro: tirare fuori un buon lungometraggio da un’opera così complessa era tutt’altro che semplice.
Il film, a mio avviso, è anche più bello del libro, vista la sua capacità di sintesi di un’opera che a tratti è un po’ dispersiva.
È aiutato da una colonna sonora superlativa e dalla notevole semplificazione della voce narrante unica.
Il libro resta superiore, e di molto, nella descrizione delle singole scene, anche se complessivamente credo proprio che il film ne esca meglio.
Un ultimo rilievo sulla scelta da parte della traduttrice, di proporre una versione partenopea (la "fessa") dei genitali femminili.

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