22 aprile 2015

Dedalus, di James Joyce

Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane (A Portrait Of The Artist As A Young Man), di James Joyce

Anno di prima pubblicazione: 1916

Edito da: Adelphi, Mondadori, Rizzoli, Newton & Compton

Voto: 7/10

Pagg.: 304 (nell'edizione Adelphi)

Traduttore: Cesare Pavese

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Il Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce è conosciuto in Italia, in alcune traduzioni, con il titolo Dedalus. Come in questa edizione Adelphi, che può vantare la preziosa traduzione dall’inglese di Cesare Pavese.

Il romanzo, di taglio semiautobiografico, racconta alcuni episodi della giovinezza di Stephen Dedalus, l’alter ego di Joyce, che deve il suo nome al celebre architetto greco Dedalo, il personaggio mitologico che costruì il labirinto del Minotauro.
Scritto tra Dublino e Trieste e pubblicato nel 1916 (dopo un passaggio a puntate su una rivista), l’opera è successiva a Gente di Dublino e precede l’Ulisse e Finnegans Wake, i due romanzi più innovativi (da un punto di vista stilistico e non solo) di Joyce.
Dedalus rappresenta, sotto certi aspetti, un’opera ponte tra il realismo di Dubliners e l’eclettismo stravagante di Ulisse e Finnegans Wake (da cui si discosta anche per l'assenza della tecnica del flusso di coscienza).
Come afferma efficacemente Alberto Rossi nella sua introduzione, si passa dalla “semplicità lineare di Gente di Dublino, traverso alla più corposa ricchezza dello stile del Dedalus, sino alla complicata orchestrazione polifonica dell’Ulisse e alle astruserie trascendentali del Finnegans Wake”.
Un certo cambio di passo rispetto a Dubliners si avverte già dallo stravagante incipit, che richiama il futuro stile di Finnegans Wake, pur restando una pagina isolata nel complesso del romanzo:
Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca che veniva giù per la strada e questa muuucca che veniva giù per la strada incontrò un ragazzino carino detto grembialino...”.

Il romanzo inizia con alcuni episodi dell’infanzia di Dedalus, allievo di una scuola gesuita. Tra le immagini più vivide che Joyce riesce a evocare nel lettore vi è sicuramente l’episodio delle punizioni corporali che Dedalus subisce ingiustamente da un severo precettore per il fatto di non poter fare i compiti per aver rotto gli occhiali. Incitato dai suoi compagni, Stephen denuncerà l’accaduto al preside, pur con una certa riluttanza, venendo acclamato dai compagni come una sorta di eroe.
Viene affrontato il tema della morte, che negli occhi di un bambino è vista in modo vago e indefinito.
L’argomento religioso viene invece trattato in alcune accese discussioni che avvengono in famiglia.
Una volta cresciuto ed entrato nell’adolescenza, Dedalus va a Dublino, dove si trova ad affrontare le prime esperienze sentimentali, nonché quelle sessuali, queste ultime con una prostituta ingaggiata per l’occasione.
È proprio su questi temi che si conclude, con una suggestiva evocazione, il capitolo II:
Sul cervello, come sulla bocca, gli premevano quelle labbra, come fossero il mezzo di un linguaggio vago; e tra di esse sentì una pressione sconosciuta e timida, più cupa del deliquio del peccato, più molle di qualunque suono o odore.

Un periodo della propria vita che Dedalus si troverà a rinnegare in quel capitolo del romanzo in cui il giovane decide di confessarsi e, in seguito, di cominciare a condurre un’esistenza moralmente e religiosamente retta.
Stephen segue per qualche tempo questo nuovo stile di vita, tanto che il rettore del suo istituto gli propone di prendere i voti, anche se egli è intenzionato a rifiutare.
Dopo questo episodio, Dedalus torna sui suoi passi, mettendo in discussione la sua decisione di votarsi all’integrità morale e religiosa.

Entrato all’università, Stephen inizia a coltivare la sua passione per la scrittura. Il suo carattere si è mutato profondamente, si è trasformato in “un tipo perfidamente eccitabile”.
Questa fase del romanzo, narrata nel capitolo V, è indubbiamente quella più fervida da un punto di vista culturale:
La sua mente, quand’era stanca di perseguire l’essenza del bello tra le parole spettrali di Aristotele o di san Tommaso, si volgeva sovente a cercare un piacere nelle squisite canzoni degli Elisabettiani.
Le discussioni che Stephen ha con i suoi amici e compagni di corso sono l’occasione per trattare temi importanti, come l’innato desiderio di fuga, perennemente castrato dalla pesantezza della società irlandese:
Quando in questo paese è nata l’anima di un uomo, le vengono gettate reti per impedirle di fuggire. Tu mi parli di nazionalità, di lingua e di religione. Io cercherò di sfuggire a queste reti. (...)
Lo sai tu cos’è l’Irlanda? – domandò Stephen con una fredda violenza. – L’Irlanda è la vecchia troia che si mangia i maiali che ha partorito.
Ma anche la natura dell’arte è un tema che viene più volte affrontato nei discorsi di Dedalus:
Parlare di queste cose, cercare di comprenderne la natura e, avendola compresa, cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò che essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questo è l’arte.
L’arte – disse Stephen – è il modo umano di disporre la materia sensibile o intelligibile a uno scopo estetico.

Il tema dell’ispirazione è affrontato in vari passaggi. Dedalus ha una musa, una giovane fanciulla apparentemente inarrivabile, che gli ispira la composizione di una poesia (che ci dà peraltro l’occasione di apprezzare la preziosa traduzione di Cesare Pavese):
simili a una nuvola di vapore o ad acque diffuse in ogni parte dello spazio, le fluide lettere del linguaggio, i simboli dell’elemento del mistero, gli traboccavano dal cervello:
Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti,
malia dei caduti serafini?
Non dire più di giorni seducenti.
Il cuore all’uomo cogli occhi arroventi
ed eccolo piegato ai tuoi fini.
Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti?
Fumi di lode salgono sui venti
dall’orlo dell’oceano ai tuoi confini.
Non dire più di giorni seducenti.
Le nostre grida e i lugubri lamenti
t’innalzano i loro inni più divini.
Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti?
Le mani ministranti, tra le genti,
ti levan calici colmi di vini.
Non dire più di giorni seducenti.
E tu ci guardi ancor negli occhi intenti,
prodiga e languida su noi ti chini!
Non sei ancor stanca dei tuoi modi ardenti?
Non dire più di giorni seducenti”.
Una poesia che lascia subito spazio, poco oltre, ad un passaggio sboccato e triviale, più confacente con il Joyce dell’Ulisse:
Lo studente ben piantato che stava sugli scalini inferiori lasciò andare una breve scorreggia. Dixon gli si volse dicendo con voce tenera: – È un angelo che ha parlato?”.

Dedalus decide di assecondare le sue pulsioni letterarie e di scrivere un romanzo:
Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia.
L’esilio, appunto: idea che accarezza con il progetto di recarsi a Parigi.
Il romanzo termina con alcune pagine di diario in cui Dedalus parla proprio di questi suoi progetti.

Il giudizio complessivo sull’opera non può che essere positivo: ovunque dal romanzo trasuda una profondità intellettuale non comune, anche se il libro rimane decisamente ostico, soprattutto ad una prima lettura.
Nel complesso si nota il passo avanti rispetto a Dubliners ma difficilmente quest’opera avrebbe reso celebre il suo autore se non fosse stata seguita dall’Ulisse.

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